Coronavirus: cosa sappiamo finora?

Il Coronavirus ci sta ancora costringendo a casa e molti di noi non stanno lavorando, ma la scienza sì.
In questo articolo cercherò di fare il punto su alcuni aspetti di questo virus e di questa malattia. Nessuna delle indicazioni e delle affermazioni vorrà sostituire il parere medico, nel caso si sospettasse di avere contratto questo nuovo coronavirus bisogna contattare il medico curante secondo le indicazioni previste.

Le origini


Come è noto questo virus ha avuto origine da un evento di spillover. Lo spillover è un evento naturale che consiste in una mutazione che fa sì che un organismo che infetta una specie animale riesca ad infettarne un'altra diversa da quella di origine.
Che questo coronavirus si sia originato dai pipistrelli ormai ci sono pochi dubbi. Come dimostrato da Nature e altre ricerche ci sono state alcune mutazioni specifiche che hanno indotto questo virus a poter infettare gli umani. La "creazione in laboratorio" paventata da alcune teorie e ripresa sporadicamente da pochi giornali è sostanzialmente esclusa. Nonostante una forte somiglianza con il primo virus della SARS (SARS-CoV) questo nuovo virus non sembra essere derivato da questo. Il suo parente più stretto a livello genetico è un coronavirus dei pipistrelli denominato "Bat SARSr-CoV-RaTG13". Una ricerca, non ancora pubblicata a dire il vero, sostiene di essere stata in grado di individuare anche quelle precise differenze genetiche che hanno permesso a questo virus di infettare gli essere umani.
Un pangolino
Quello che non si è ancora capito è se il SARS-CoV-2 sia stato in grado in grado di infettare l'uomo direttamente dai pipistrelli e poi nell'uomo abbia acquisito le capacità virulente che conosciamo o se abbia acquisito virulenza nell'animale prima di passare all'essere umano. Altra domanda non risolta è se prima di passare all'uomo abbia attraversato una specie intermedia dai pipistrelli. A questa domanda la rivista Cell risponde con una recente ricerca in cui, in base ad analisi filogenetiche, un possibile sospetto ricadrebbe sul pangolino, un piccolo mammifero africano commercializzato e venduto però anche nei paesi asiatici.
Queste domande che, all'occhio dei più in fase di emergenza, potrebbero sembrare di lana caprina sono invece fondamentali. Risolverle potrebbe aiutare i ricercatori a prevedere e controllare possibili epidemie e pandemie future. Gli spillover sono sempre avvenuti e sempre avverranno, controllarli e capirli serve a farci trovare meno impreparati.

Quanti ceppi esistono?

I virus mutano molto facilmente all'interno del loro organismo ospite. È quindi possibile l'originarsi di più ceppi virali che circolano all'interno di una popolazione. Questi ceppi, cioè varianti di uno stesso microrganismo, potrebbero avere diverse caratteristiche di virulenza, trasmissibilità o arrivare ad essere specifiche di una determinata popolazione o area geografica. Inoltre tracciare i vari ceppi può aiutare nella ricerca delle modalità di trasmissione e nei "viaggi" che ha fatto il virus prima di colpire una popolazione.
Nel caso del nuovo coronavirus, una ricerca pubblicata il 3 marzo sembra aver individuato due ceppi principali: il ceppo L e il ceppo S. Sulla base delle analisi genetiche il ceppo L sembrerebbe derivato dal ceppo S, suggerendo che quest'ultimo sia anche il più vicino al virus animale originario. Tuttavia le mutazioni che caratterizzano i due ceppi sono davvero poche e non ci sono indizi che uno dei due possa avere caratteristiche cliniche diverse. Lo studio ha analizzato 103 genomi del virus depositati nelle banche date pubbliche e hanno visto che il ceppo L sembrerebbe anche più diffuso nella popolazione. Questo suggerirebbe che questo ceppo abbia acquisito una maggior capacità di diffusione tra la popolazione umana, mostrando un adattamento del virus "originario" al corpo umano. Tuttavia, dicono i ricercatori, questo non implica una diversa capacità di indurre i sintomi clinici e tutti questi dati dovranno essere confermati da studi successivi e più approfonditi.
A parte i due ceppi principali possono sussistere tanti altri "micro-ceppi" cioè varianti geografiche che possono aiutare a scovare le modalità di diffusione della malattia a livello geografico. In pratica si può così scoprire il cosiddetto "paziente 0" o capire se un virus è "imparentato" al virus circolato in un'altra zona e quindi se è venuto da là e in che modo può essere arrivato. Ad esempio una recente analisi svolta su due genomi derivati da pazienti italiani ha scoperto che questo virus ha una leggera maggior similarità con dei genomi di pazienti tedeschi rispetto ai genomi di pazienti cinesi. Il risultato potrebbe confermare che il virus arrivato in Italia e prima transitato nel territorio tedesco. È bene sottolineare che in ogni caso queste differenze genetiche sono davvero minime e che le analisi andrebbero ancora approfondite.
Questo tipo di analisi può tracciare una "mappa di viaggio" del contagio, aiutando a capire anche in via prospettica quali sono le rotte dei pazienti.
In generale, nonostante il grado di variabilità osservato e tutto sommato atteso, il coronavirus sembra essere abbastanza stabile. Questo risultato aiuterebbe la ricerca di una cura efficace e di un vaccino valido a livello universale.

Come si trasmette?


La via di trasmissione principale tra gli esseri umani sembra essere la trasmissione via droplets. Queste piccole goccioline di liquido sono emesse principalmente con tosse e starnuti, mentre più raramente con il fiato e con il parlare. Queste goccioline è stato dimostrato che difficilmente riescono a superare i 2 metri di distanza con i normali colpi di tosse e starnuti (in quest'ultimo caso possono raggiungere anche i 3). Le misure di distanziamento sociale sono quindi le prime misure per rimanere protetti dalle persone con sintomi. Il nuovo Coronavirus, responsabile della malattia respiratoria COVID-19, può però entrare nel corpo anche dagli occhi, attraverso la congiuntiva. Attraverso le mucose i liquidi lacrimali possono arrivare a naso e gola. Per questo si consiglia di non toccarsi gli occhi con le mani sporche, soprattutto se si ha precedentemente tossito o starnutito.
Il virus può sopravvivere anche su alcune superfici e nell'aria. Una recente pubblicazione sul New England Journal of Medicine sostiene infatti di aver trovato particelle virali su varie superfici fino a 48h e nell'aria fino a 3 ore. Questo dato è confermato anche a una'altra ricerca che ritrova il codice genetico del virus nell'aria e negli oggetti in stanze con pazienti infetta dal virus del COVID-19. Tuttavia non è chiara la capacità infettiva di queste particelle. Per sicurezza l'igienizzazione di oggetti poco sicuri o maneggiati da persone potenzialmente infette potrebbe essere una buona norma, soprattutto in zone dove il contagio è diffuso.
Il virus non si trasmette per via alimentare, anche se lavare frutta e verdura, mantenere una buona igiene in cucina (utensili diversi o comunque lavarli per maneggiare cibi crudi e cotti, lavaggio taglieri, cottura sopra i 72°C, non ricongelare cibi congelati ecc...), lavarsi le mani prima di cucinare e mangiare sono sempre consigliati e di buona prassi.

Una trasmissione a maggiori distanze?

Una recente analisi aveva paventato sui giornali che le droplets potessero arrivare fino ad 8 metri di distanza. Questa analisi non si basava però nello specifico al coronavirus e il più importante autore della ricerca ha dovuto indire una conferenza stampa per specificare come i suoi risultati siano stati mal interpretati. Si tratterebbe di condizioni estreme (starnuti eccessivamente potenti, da aree molto rialzate, presenza di forte vento favorevole) che difficilmente si possono presentare.
Altra notizia diffusa dai media è stata quella che questo virus si potrebbe trasmettere col fiato fino a quasi due metri di distanza. Anche questa notizia va contestualizzata. Si fa riferimento a due pubblicazioni, una pubblicata su Nature e una ancora in fase di revisione, in cui si analizza l'aria in stanze con pazienti infettati da SARS-CoV-2. Nel primo caso si è trovato RNA virale nell'aria e negli oggetti presenti nelle stanze, soprattutto dopo manovre mendiche o dopo operazione di pulizia. Questa presenza veniva resa quasi trascurabile se il paziente indossava mascherine chirurgiche. La seconda ricerca, non ancora pubblicata, ripete sostanzialmente questa analisi su una serie di pazienti più ampia e ambienti diversi. Questo studio trova il virus anche nell'aria dei corridoi dei reparti COVID-19, anche qui dopo che sono state fatte operazioni mediche nelle stanze dei pazienti.
Il 3 Aprile 2020 è stato pubblicato su Nature Communications uno studio riguardo la carica virale presente su campioni d'aria in ambienti con persone malate. I virus erano tutti virus respiratori. Riguardo i coronavirus (non il SARS-CoV-2) hanno trovato una presenza di questi patogeni in basse concentrazioni nel 40% dei campioni. Questo significa che il contagio attraverso la dispersione di aerosol (cioè particelle più fine rispetto alle droplets) potrebbe non essere uno dei metodi preferiti dal virus, ma potrebbe diventarlo in ambienti chiusi e poco aerati. I ricercatori hanno anche visto che se le persone malate indossavano mascherine chirurgiche la presenza nell'aria era sostanzialmente annullata.
Non ci sono evidenze significative che il virus possa essere trasmesso dagli impianti di condizionamento, anche se con il virus della SARS (quello del 2003) era stato rilevato in un albergo dall'aria dei condizionatori. Può essere una modalità da monitorare, ma di sicuro non è una via preferenziale.
Queste ricerche che ho citato non analizzano la capacità infettiva di eventuali particelle, ma la presenza di RNA virale. Vuol dire che eventuali virus hanno auto un tempo di sopravvivenza nell'aria, ma la modalità di trasmissione preferita è da considerarsi sempre la modalità tramite tosse, starnuti e contatto diretto. Per la diffusione dei virus nell'aria consiglio comunque questo ottimo articolo di amolachimica.it.
Trasmissioni diverse dalla via aerea e per contatto diretto sembrano comunque escluse.

Come si lega?

Come dicevo all'inizio di questo articolo, del virus conosciamo il genoma e le sue proteine. Ma cosa succede quando i virus entra nel nostro corpo?
Le proteine SPIKE, sono le proteine che danno al virus il suo tipico aspetto a corona. Queste proteine servono al coronavirus per agganciarsi alle cellule del corpo umano. Viste le somiglianze con il precedente virus umano della SARS, si era già sospettato che il recettore a cui si legassero fosse la proteina ACE2, soprattutto nella sua variante polmonare. ACE2 è una proteina presente sulle cellule, soprattutto su polmoni, reni e vasi sanguigni, che serve a regolare così la pressione sanguigna. ACE2 abbassa la pressione sanguigna catalizzando la scissione dell'angiotensina II (un vasocostrittore ) in angiotensina 1–7 (un vasodilatatore ). Questa funzione rende l'ACE2 un promettente bersaglio farmacologico per il trattamento di malattie cardiovascolari. La conferma di questa ipotesi sul legame è arrivata da una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista Cell. Tuttavia non ci sono evidenze che il virus, legandosi a questo recettore, influenzi la pressione del sangue. Affinché il legame avvenga serve che la proteina SPIKE venga attivata. Per avvenire ci deve essere l'azione di un altro enzima, chiamato TMPRSS2. Questo enzima "stacca" un pezzo dalla proteina SPIKE rendendola adatta a legarsi ad ACE2. Questa via di ingresso potrebbe anche essere utile per sviluppare cure utili a bloccare l'infezione e pure un vaccino.
Un'altra possibile chiave di ingresso potrebbe essere una molecola chiamata DPP4. A sollevare questa ipotesi è il ricercatore italiano Gianluca Iacobellis. Questa proteina aveva mostrato un ruolo sia con i coronavirus della SARS e della MERS. La sua inibizione, secondo il ricercatore, potrebbe avere un ruolo nel controllare l'infezione che provoca il COVID-19, soprattutto nelle persone diabetiche.

Quali sono i sintomi?

Una volta entrato nel nostro corpo e nelle nostre cellule il virus fa quello che è programmato per fare: riprodursi. Il suo materiale genetico, l'RNA inizia a produrre le proteine e replicare sé stesso. Per uscire dalle cellule il SARS-CoV-2 non uccide le cellule, ma sostanzialmente "gemma" portandosi dietro le sue proteine un po' dei grassi che compongono la membrana delle nostre cellule. Questo effetto, dato che non distrugge e non danneggia fortemente il nostro organismo, non è la causa dei disturbi patologici della malattia.
Il virus e quello che comporta all'interno del corpo causa una cosiddetta cascata infiammatoria. Questa cascata può diventare una era e propria tempesta dannosa. Le attrici principali di questa tempesta sono una famiglia di molecole chiamate interleuchine.
Queste molecole attivano l'infiammazione ed un ruolo importante nel gestire questo processo spetta all'interleuchina-6. L'infezione e il rilascio in grande quantità di interleuchina 6 in grande quantità provoca una sindrome nota come "sindrome da rilascio di citochine", in inglese ha la sigla CRS. Questa sindrome causa una forte vasodilatazione, il rilascio di fluidi e una maggior vaso-permeabilità. In questo modo i polmoni si riempono di fluidi e sangue, portando, nei casi più gravi, a crisi respiratorie e morte. L'aumento di interleuchina 6 sembrerebbe essere correlato ad un andamento nefasto nei pazienti. Monitorare questo parametro è quindi fondamentale per capire l'evolversi della malattia. Oltre alla interleuchina-6 altre molecole della stessa famiglia aumentano la loro attività di stimolazione eccessiva nei pazienti COVID-19. A sostenerlo è una lettera alla rivista Lancet che propone anche una tabella per valutare la gravità della sintomatologia.
I sintomi appaiono mediamente tra i 2 e i 15 giorni dall'infezione, tra i più comuni nei pazienti ammalatati di COVID-19 si possono riscontrare:

  • Febbre sopra i 37.5°C: la stragrande maggioranza dei pazienti è febbricitante
  • Tosse secca: è il secondo sintomo più diffuso
  • Dispnea e difficoltà respiratorie: molti pazienti manifestano difficoltà e affaticamento respiratorio
  • Altri sintomi diffusi sono: catarro, affaticamento muscolare, dolori ossei e addominali. In alcuni pazienti si possono presentare anche diarrea, difficoltà digestive e vomito.
Come si vede i sintomi non sono così diversi da forme di influenza. I pazienti più gravi, a causa di sovrainfezioni o a causa delle CRS sviluppano polmonite bilaterale con conseguenze ancora peggiori se il paziente aveva patologie pregresse.
Una recente analisi italiana ha mostrato come su 59 pazienti più di un terzo ha mostrato come segno dei disturbi nel gusto e nell'olfatto, confermando di fatto alcuni racconti anedottici dei medici che operano nei reparti COVID-19.

Prognosi

La maggioranza dei pazienti non ha bisogno di cure particolari. Le cure raccomandate, in assenza di altre patologie, sono quelle per combattere i sintomi. Il trend di crescita e i trattamenti farmacologici sono diversi da Paese a Paese.
La gravità della malattia è stata molto studiata.
In alcuni pazienti con patologie pregresse o sintomatologie più importanti, può essere richiesto un ricovero ospedaliero per monitorarne le condizioni cliniche. I pazienti che sviluppano gravi forme di polmonite o importanti problemi respiratori possono richiedere intubazione e ricovero nei reparti di terapia intensiva. Nei vari Paesi colpiti, difficilmente supera il 9%, attestandosi mediamente al 5-6% su scala globale.
Un primo studio pubblicato sulla rivista Lancet stima che il tempo medio fra la manifestazione dei sintomi e il ricovero in terapia intensiva (nel caso di necessità) sia di 16 giorni. Le persone ammesse in terapia intensiva presentavano più frequentemente malattie cardiovascolari, ipertensione e diabete, rispetto a chi non ne aveva bisogno.
I report bisettimanali pubblicato dall'italiano Istituto Superiore di Sanità riguardo la mortalità sono sulla stessa linea. Più dell'83% della letalità si concentra nelle persone con più di 70 anni di età. Nei pazienti deceduti, il tempo tra l'insorgenza dei sintomi e la morte è stato di circa 10 giorni. I dati di alcune ricerche suggeriscono un tempo fra sintomi e decesso di 17, con però una ampia variabilità. A livello di patologie pregresse solo il 2% dei deceduti non presentava altre patologie in corso, mentre il rimanente presentava almeno una co-morbilità. 
Il tempo di guarigione, cioè il tempo tra la comparsa dei sintomi e la scomparsa del virus dal corpo è stimato in circa 24 giorni mediamente. Bisogna ricorda che per essere dichiarato guarito dal SARS-CoV-2, bisogna avere 2 tamponi negativi a distanza di 24h uno dall'altro. Il tempo fra la scomparsa dei sintomi e la scomparsa del virus sono molto variabili comunque e vanno da pochi giorni fino anche più di un mese.

Gli anticorpi

Tema molto discusso in questo periodo è quello dei test sierologici per gli anticorpi. Questo è un tema molto complicato. L'infezione è in giro da poco. Bisogna capire: che anticorpi cercare? Per quanto tempo si hanno nel corpo? Per quanto tempo dopo l'infezione si sviluppano?
Vanno intanto divisi gli anticorpi: in termine tecnico si chiamano immunoglobuline (Ig). Esistono le immunoglobuline di classe M (IgM) che riconoscono una infezione avvenuta o potenzialmente in corso e quelle di classe G (IgG) dette anche "della memoria". Le IgG si sviluppano più tardi e rimangono nel corpo per un bel po' finita l'infezione.
Una ricerca finlandese ad esempio ha scoperto che nessun anticorpo era rilevabile dopo 4 giorni rispetto alla comparsa dei sintomi, poi comparivano le IgM e, quasi contemporaneamente, le IgG. Le quantità di anticorpi crescevano rapidamente dopo 9 giorni dalla comparsa. La misurazione degli anticorpi è durata fino a 47 giorni rispetto alla comparsa dei sintomi. Dopo 42 giorni la presenza di IgM era in forte calo (in alcuni casi non rilevabile) mentre al giorno 47 iniziavano a calare, molto lievemente, anche le IgG. Una stranezza di questa infezione è stata la comparsa quasi temporanea dei due tipi di anticorpi e che la classe G (della memoria) salisse molto più velocemente degli anticorpi di classe M.
Questi risultati sembrano essere confermati da una altra analisi ancora in fase di revisione. In questa analisi si evidenzia come gli anticorpi IgG comparissero stranamente anche prima degli IgM, soprattutto nei pazienti gravi. In questo caso le indagini si sono fermate dopo 23 giorni rispetto alla comparsa dei sintomi e, mediamente, a quella data le igM iniziavano a calare, mentre i livelli di immunoglobuline G erano ancora ai livelli massimi registrati.
Risultati sembrano però lievemente in contrasto con una analisi, sempre in attesa di pubblicazione ufficiale, dove invece l'andamento degli anticorpi (analizzato fino a 39 giorni) avviene con una dinamica più classica. Prima quindi compaiono le IgM e poi le IgG che crescono nel tempo. Al giorno 39 più del 90% dei campioni era positivo per le IgM e quasi il 79% per le IgG.
Come si capisce ci sono molte incertezze. L'OMS consiglia tuttavia la ricerca di anticorpi contro questo nuovo coronavirus sia a scopo di ricerca sia a scopo statistico per il monitoraggio dell'infezione nella popolazione.

In conclusione sappiamo già moltissime cose su questo virus pandemico, ma ancora molte cose sono da scoprire e chiarire. In questo (già lunghissimo) articolo, ho provato a sintetizzare una parte delle conoscenze, ma ci sarebbero molte altre cose da dire. È fondamentale continuare a fare ricerca e seguire le indicazioni della comunità scientifica per controllare e gestire il diffondersi di questo virus.
Alla prossima!

Fonti (oltre agli iperlink)
https://idpjournal.biomedcentral.com/articles/10.1186/s40249-020-00646-x
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7090728/
https://www.tandfonline.com/doi/full/10.1080/07391102.2020.1754293

Commenti

Post popolari in questo blog

+++ATTENZIONE! RICORDATI CHE DEVI MORIRE!+++ Quando dovresti avere paura anche di un foglio di carta

Pesci grandi, pesci piccoli, pesci ogm e... acqua calda!

Etciù! Salute! Benvenute allergie