LA PLASTICA INVISIBILE – Ignorarla non la rende meno reale

Plastica nell'acqua, plastica nel pesce, plastica nelle verdure, plastica nel nostro intestino. Ma che sta succedendo? Cosa sono tutte queste microplastiche che spuntano fuori come funghi?
Oggi ne parliamo con KIT.
Le microplastiche sono piccole particelle di plastica che vanno dai 330 micrometri ai 5 millimetri di grandezza, che inquinano l’ambiente terrestre e marino. Sulla loro presenza e pericolosità se ne discute da anni e ormai ci sono diversi studi scientifici che ne parlano. In pratica, gli oggetti e gli imballaggi di plastica con cui abbiamo a che fare tutti i giorni che finiscono nell'ambiente, si frammentano e disgregano in piccolissimi frammenti. Questi micro-frammenti possono essere ingeriti dagli animali o produrre sostanze nocive per l’ambiente.
Esistono anche particelle più piccole, che prendono il nome di nanoplastiche, ma date le dimensioni ridottissime sono impossibili da campionare con le attrezzature oggi a disposizione. Di queste, dunque, sappiamo ancora poco.
Questo articolo è quindi dedicato alle prime, alle microplastiche, e vuole tentare di chiarire le dimensioni del problema e come si sta cercando di affrontarlo.
Partiamo dalle origini.

DA DOVE ARRIVANO LE MICROPLASTICHE?

Questi frammenti si originano dalla degradazione di polimeri plastici più grandi, chiamati “plastiche prime”.
La plastica è prodotta in moltissime forme: sacchetti, materiale da imballaggio, materiali da costruzione, recipienti, contenitori, nastri e attrezzi per la pesca. Essendo materiali non biodegradabili (cioè non si trasformano in prodotti metabolizzabili dagli organismi viventi), se viene abbandonato in natura, finisce per disgregarsi a causa, ad esempio, dei raggi ultravioletti, del vento, degli sbalzi di temperatura e delle onde se si trova in mare. Ciò che rimane del deterioramento, sono letteralmente micro-frammenti di plastica.
Vista la diversità polimeri plastici prodotti dall’uomo ed i molteplici fattori che determinano il loro deterioramento, è difficile dire con precisione quanto tempo un rifiuto impieghi a diventare microplastica.

QUAL È LA STORIA DELLE MICROPLASTICHE?

Dal lontano 1861, in cui l’inglese Alexander Parkers isolò e brevettò il primo materiale plastico semisintetico (la Parkesina) ad oggi, la produzione mondiale di plastica ha superato i 300 milioni di tonnellate, con una crescita del 38% negli ultimi 10 anni. La conseguenza è ovvia: più plastica viene utilizzata, più ne viene buttata, e questa spesso finisce per giungere nei mari e negli oceani.
C’è stato poi un periodo in cui le microplastiche venivano non solo dalla degradazione di oggetti di plastica più grandi, ma erano prodotte appositamente dall'industria, come nel caso delle “microsfere” utilizzate in cosmetica o per l’igiene personale, diventate rapidamente una moda. Queste microbeads (microbiglie) non sono altro che materiali plastici ridotti volutamente a dimensioni piccolissime, che aumentano la capacità abrasiva dei detersivi ad esempio, aumentandone il potere pulente.
A livello scientifico, lo studio delle microplastiche come prodotto di degradazione di polimeri più grandi, è iniziato alla fine degli anni’90, mentre la valutazione del loro impatto ambientale dai primi anni 2000. Ma solo in questi ultimi anni si è cominciato a pensare a come muoversi per contenere il fenomeno.

QUANTO È GRANDE IL PROBLEMA?

Si stima che un terzo di tutti i rifiuti di plastica finisca nel suolo o nell'acqua (vi ricordate la storia dell'astice dalla chela di Pepsi?) e gli scienziati dicono che l’inquinamento microplastico terrestre è addirittura molto più alto dell’inquinamento marino. È stimato infatti che il suolo contenga da 4 a 23 volte più plastica del mare, a seconda dei casi. Solitamente, la degradazione dei polimeri plastici porta alla produzione di nuove molecole con proprietà chimico-fisiche diverse dal materiale di origine, aumentando il rischio di effetto tossico sugli organismi.
L'80% circa della plastica che si ritrova ad inquinare gli oceani deriva da sversamenti umani nei pressi delle aree fortemente urbanizzate e industriali. Un altro 10% circa deriva invece dalle attività umane svolte direttamente in mare, si tratta per lo più di materiali da pesca (es. fili, reti) o imballaggi di vario genere caduti dalle navi. Il rimanente 10% (scarso) proviene da altre fonti come ad esempio naufragi e disastri naturali, che in ogni caso coinvolgono l’opera dell’uomo.
Come già accennato, negli anni ‘90 i settori della cosmesi e dei detergenti hanno cominciato a inserire “microsfere” più o meno ovunque: dai detergenti per la pelle alle creme da barba, dal sapone ai detersivi per i piatti. Tuttavia, a metà degli anni 2000, analisi sulle acque domestiche e naturali hanno evidenziato la presenza di queste microsfere in quantità elevate e rilevanti per la salute. Questo ha scatenato l’attenzione dei media portando alla scomparsa di questi prodotti. Ma ahinoi, il danno ambientale era ormai stato fatto.
Negli ultimi anni, l’utilizzo delle fibre sintetiche nel settore dell’abbigliamento è cresciuto moltissimo, arrivando a rappresentare il 61% della domanda a livello globale. Purtroppo, anche i tessuti sintetici sono una fonte significativa di microplastiche, rinvenute in acque reflue ed in natura. Queste microplastiche in particolare, derivano principalmente dalle industrie di abbigliamento ma anche dal lavaggio domestico dei capi, soprattutto se eseguito ad alte temperature. Lo studio “Microfiber Masses Recovered from Conventional Machine Washing of New or Aged Garments”, commissionato nel 2016 da “Patagonia” all'Università della California – Santa Barbara, ha rilevato che «il lavaggio di una singola giacca sintetica rilascia ogni volta in media 1,7 grammi di microfibre».
La Norwegian environment agency conferma che ogni indumento possa rilasciare anche 1900 particelle di microplastica a ogni singolo lavaggio. Per questo, secondo la stessa fonte, le emissioni di microplastica derivate dal lavaggio degli indumenti, supera quello dei cosmetici, costituendo da solo il 35% di tutte le microplastiche ritrovate in acqua.
Ma per assurdo, anche l'aria può essere una fonte di inquinamento da micropastiche. Un buon numero di queste deriva ad esempio dallo sfregamento degli pneumatici sull'asfalto e dalle pastiglie dei freni delle automobili. Le plastiche così rilasciate nell'ambiente, vengono poi trasportate negli ambienti marini dal vento e dalla pioggia.
Infine, come già detto, la navigazione e la pesca sono una fonte diretta di sversamento di plastica in mare. Questo accade nonostante un accordo internazionale introdotto nel 1988, che vieta ai pescherecci di abbandonare in mare reti e scarti di plastica. Si stima che con le attività marine si producono circa 6 milioni di tonnellate di plastica all’anno.
In effetti, nel mondo vi sono regioni in cui l’immissione di plastiche e microplastiche nel mare sono sensibilmente più elevate. In primis, Cina, Sud-est asiatico, USA e alcune aree costiere dell’Africa.
Tuttavia, proprio la Cina vuole diventare il più grande riciclatore di plastica al mondo. Recentemente, ha infatti chiuso i battenti all’importazione di plastica dal resto del mondo. Dopo l’annuncio, dato nel luglio 2017, il presidente Xi Jinping è passato ai fatti, bloccando l’importazione di molti materiali plastici dall’inizio del Gennaio 2018. Ora è sua volontà portare il riciclaggio domestico della plastica a 350 milioni di tonnellate all’anno entro il 2020.

CHE DANNI CAUSANO ALL'UOMO?

Secondo l'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) il 15-20% delle specie acquatiche che finiscono sulle nostre tavole contengono microplastiche. Invece uno studio dell’Università nazionale d’Irlanda sostiene che tra i pesci del Mare del Nord che vivono tra i 200 e i 1.000 metri di profondità, la percentuale di specie contenenti microplastiche sale addirittura al 73%.
La ricaduta sulla nostra salute sembra inevitabile.
Le microplastiche sono attualmente quasi impossibili da rilevare nelle analisi di controllo e qualità effettuate dalle aziende produttrici (autocontrollo) e nelle analisi ufficiali degli Enti vigilanti. Gli studi sulla tossicità di questi materiali sono molto scarsi. Non siamo ancora in grado di conoscere perfettamente i materiali di cui sono composte, infatti non conosciamo quali plastiche siano più “propense" a disgregarsi in microparticelle. Inoltre, non sappiamo esattamente quali siano i prodotti della fotodegradazione, operata dai raggi UV e sono pochi anche gli studi che ne analizzano la tossicità a lungo termine.
Dai pochi dati a disposizione, comunque, si teme che questi inquinanti possano interferire con il sistema endocrino umano e quindi con la produzione degli ormoni, causando o facilitando lo sviluppo di disturbi e patologie (tra le quali anche alcune forme di cancro).
In particolare, si guarda con molta attenzione alle sostanze dette “inquinanti organici persistenti” (POP), chiamati così perché molto resistenti alla decomposizione. Tra i POP ci sono i policlorobifenili (PCB) e il diclorodifeniltricloroetano (DDT), si proprio il caro e vecchio insetticida proibito in Italia nel ’78. Secondo i dati raccolti da International Pellet Watch, grandi quantità di PCB sono state rilevate nelle baie a Nord della Francia e nello stretto della Manica, mentre ingenti tracce di DDT sono state trovate sulle coste dell’Albania. Questo dimostra che, sebbene gli inquinanti vengano trasportati ovunque, esistono aree specifiche in cui finiscono per accumularsi, come ad esempio il nostro Mar Mediterraneo.

DOVE SI TROVANO?

Queste microscopiche particelle di plastica, invisibili ad occhio nudo, vengono ingerite dagli organismi alla base della catena alimentare (plancton, invertebrati e piccoli pesci) e via via permangono e si accumulano nelle specie che se ne nutrono (gabbiani, pesci più grandi, predatori…). Le microplastiche quindi si bioaccumulano (rimangono nell’organismo che le ingerisce) e si biomagnificano anche, ovvero risalgono la catena alimentare. Il fenomeno è lo stesso del più famoso caso del mercurio. Man mano che si risale la catena alimentare, si arriva ad avere, nei grossi pesci come il tonno, quantitativi rilevanti di mercurio, che quindi possono risultare dannosi anche per noi umani.
L’ultimo rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (UNEP) stima che ogni chilometro quadrato di oceano contenga mediamente più di 63.000 particelle di microplastica, con differenze significative per alcune regioni geografiche. I dati rivelano inoltre che solo nel Mediterraneo circolano 250 miliardi di frammenti, corrispondenti a circa 677 tonnellate. Il Mediterraneo, sotto questo punto di vista, risulta essere quindi uno dei mari più inquinati al mondo. Qui si concentra il 7% delle microplastiche del globo. Ma oltre al nostro Mare, ci sono cinque regioni oceaniche dove, per via delle correnti, si accumulano le più grandi quantità di detriti. Una di queste è occupata dalla tristemente famosa Great Pacific Garbage Patch, un’isola galleggiante dalle dimensioni colossali, costituita di spazzatura e collocatasi autonomamente nel mezzo dell’Oceano Pacifico.
Anno dopo anno la plastica si accumula e secondo alcuni rapporti nel 2025 in mare ci sarà una tonnellata di plastica ogni tre tonnellate di pesci, e questo rapporto è destinato a pareggiarsi entro il 2050. Insomma, andando avanti così ci troveremo davanti "un mare di plastica", letteralmente.

COSA SI STA FACENDO CONTRO LE MICROPLASTICHE?

Dal 2015, combattere l’inquinamento degli oceani è uno degli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU (Sustainable Development Goals), il numero 14 per la precisione. Nel frattempo, sono diversi gli Stati in cui sono state introdotte leggi per contenere il problema. Ad esempio, ci sono diversi i paesi nel mondo ad aver vietato la produzione di borse di plastica non biodegradabile. Per quanto riguarda l’Italia vi ricorderete certo i tanto discussi sacchetti dell’ortofrutta biodegradabili.
In tutto il mondo, numerosi Paesi (compresi Italia, Canada, Irlanda, Paesi Bassi e Regno Unito) hanno introdotto una legislazione che vieta la produzione di cosmetici e prodotti per la cura personale contenenti microperle.
Nel dicembre 2015, il presidente USA Barack Obama, ha firmato il “Microbead-Free Waters Act 2015”, introducendo il divieto per i produttori di cosmetici di aggiungere intenzionalmente microsfere di plastica nei prodotti “da risciacquo”, come dentifrici e creme per la pelle. Sebbene questa legge non includa altri cosmetici, come ad esempio quelli per il make-up, è stata di ispirazione per altri Stati del mondo.
Nel Vecchio Continente, il Regno Unito ha introdotto recentemente lo stesso divieto, allargandolo a tutti i prodotti cosmetici. Inoltre, la stessa Regina ha dichiarato di voler abolire l’utilizzo della plastica monouso a Palazzo, sostituendola con materiali biodegradabili. Notizia arrivata recentemente col divieto di plastica monouso nella UE dal 2021.
In Italia, dove secondo alcune stime produciamo quasi il 60% dei cosmetici mondiali, si parlava da anni di creare una legislazione che vietasse l’immissione di microplastica nei cosmetici, finalmente questa legge è arrivata e sarà vietata l’introduzione di microplastiche dal 1 gennaio 2020.

COSA POSSIAMO FARE NOI?

Prima di tutto riciclare. Sembra ovvio ma in Europa solo poco più del 30% della plastica viene raccolta correttamente (cioè gettata dove è giusto gettarla) e solo il 7% viene riciclato (fate voi quanta ne finisce nel posto sbagliato). A grandi linee possiamo dire che se abbiamo in mano un imballaggio, col simbolo delle frecce a forma di triangolo, possiamo metterlo nei cassonetti della raccolta differenziata. Se invece abbiamo davanti della gomma o qualche materiale dubbio, mettiamolo nell'indifferenziata. Ma per maggiori indicazioni vi rimando al nostro video in merito.
Evitiamo di acquistare prodotti cosmetici o per la pulizia, che contengano microplastiche o microsfere aggiunte.
Inoltre, non dimentichiamoci mai che la plastica è un prodotto eterno, fatto per durare (che è sostanzialmente il problema per cui inquina...) quindi non ha senso usarla in modo usa e getta. Il consiglio è quello di limitare gli imballaggi in plastica quando possibile. Preferite magari contenitori più facilmente riciclabili, come il vetro ad esempio. Pensate che, secondo l'Eurobarometro, in Europa solo il 34% dei cittadini evita di utilizzare oggetti di plastica monouso e in Italia si scende al 27%. Ancora più bassa è la percentuale di chi evita l'acquisto di prodotto con un imballaggio eccessivo: il 24% in Europa contro il 17% in Italia.
Ad esempio, potreste smettere di acquistare bottiglie dell’acqua in PET. Ormai lo sanno anche i muri che si spende un sacco di più e non se ne guadagna in salute, anzi!
Infine, se siete fuori casa non abbandonate i rifiuti sulla panchina o per terra. Cercate un cestino e toglietevi il pensiero, non siate pigri. E se non trovate un cestino per la plastica, piuttosto di niente usate un bidone dell’indifferenziata. Volendo si potrebbe aggiungere che può essere utile qualche gesto di civiltà: se troviamo un sacchetto di plastica, una cannuccia, una bottiglietta d’acqua, “dimenticati” in giro, raccogliamolo e buttiamolo noi nella spazzatura.

Se non vi interessano l’ambiente o gli oceani, non fatelo per questo, fatelo per voi. Perché poi quella plastica finite per trovarvela nel piatto e a starci male potreste essere voi.
Il futuro sta decisamente nelle nostre mani, non gettiamolo a terra con le cartacce.

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