10 domande sul Coronavirus (parte 1)

Torniamo a parlare di Coronavirus cercando di mettere un po' di risposte a domande sul virus e la pandemia

Tra asintomatici, mascherine, carica virale e altre cose tante domande possono sorgere riguardo le misure di contenimento e le caratteristiche di questo coronavirus. Cerchiamo di capirci qualcosa

Mascherine: sono davvero efficaci?

Con gli obblighi sempre più universali riguardo l'obbligatorietà della mascherina ci si potrebbe chiedere se questo tipo di protezione sia davvero efficace nel contenere la diffusione del virus.
La letteratura è molto chiara nel distinguere vari tipi di mascherine: filtranti facciali (quelle chiamate FFP2 e FFP3), mascherine chirurgiche e mascherine in stoffa (fabbricate o autoprodotte) hanno diversi tipi di protezione ed efficacia.

Vediamo brevemente quali tipo di mascherine si possono trovare:
- Le "mascherine chirurgiche”: la loro produzione è regolata in modo preciso. Il loro scopo si attiene a regole rigorose per fornire protezioni contro le infezioni. La capacità di filtraggio è quello di proteggere le persone da pazienti infetti.
- Le maschere FFP1: forniscono una protezione da polveri e agenti grossolani. Hanno una buona capacità filtrante in ingresso, ma non elevata in uscita. Non sono consigliabili per essere usate in contesti sanitari.
- Le maschere FFP2: dette anche maschere maschera N95. Le maschere FFP2 devono riuscire a soddisfare una serie di norme protettive più severe. Proteggono le persone sia in inalazione che in espirazione. In particolare quelle senza valvola di espirazione, poiché lasciano uscire l'aria espirata non filtrata. In ogni caso oltre il 95% delle particelle e delle goccioline viene trattenuto durante l'inalazione.
- Le maschere FFP3: le maschere FFP3 proteggono l'utente in modo ancora più efficace delle FFP2, poiché più del 99% delle goccioline e delle particelle vengono filtrate durante l'inalazione. Le maschere FFP3 proteggono anche l'ambiente in assenza di una valvola di espirazione.

Le mascherine chirurgiche e le FFP hanno quindi una elevata capacità di filtrazione. In particolare i filtranti facciali hanno una ottima capacità di filtrazione sia in uscita che in entrata. Le chirurgiche hanno mostrato di ridurre le particelle di saliva in fuoriuscita dal 74% al 90%. La capacità di filtrazione in uscita è risultata comparabile fra chirurgiche monouso e filtranti facciali, mentre la capacità di proteggere l'individuo dall'entrata di particelle dall'esterno è massima per le FFP2 e FFP3. Attenzione questo non vuol dire che le mascherine chirurgiche non abbiano alcuna capacità protettiva in entrata. Un individuo che indossa la mascherina può ridurre l'ingresso di droplets e aerosol dal 10 al 35% a seconda di vari fattori.
Le mascherine in stoffa autoprodotte invece sembrano aver un impatto minore. Vari studi e ricerche hanno dimostrato che questo tipo di maschere filtrino molto meno il droplet, ma molto dipende dagli strati e dal materiale che la compongono. La capacità di filtrazione si riduce anche del 70% sia in uscita che in entrata rispetto ad una mascherina chirurgica. Uno studio però dimostra che mascherine di stoffa con la possibilità di inserire filtri, ma anche salviette o sacchetti antipolvere, può portare queste maschere a capacità di filtrazioni simili alle maschere chirurgiche.

In generale quindi si può dire che i filtranti facciali possono risultare utili in situazioni più ad alto rischio e quando si vuole fornire una protezione più profonda. In tutti gli altri casi la mascherina chirurgica è più che sufficiente. Per quanto riguarda le mascherine riutilizzabili la situazione è più complicata: dipende dai materiali, dalla quantità di strati, dalla presenza o meno di filtri, dall'aderenza al viso ecc... Quindi questo tipo di maschere andrebbe usata con attenzione e in assenza di ulteriori possibilità. 

Ma funzionano durante una pandemia?

La risposta a questa domanda è in divenire. Le prove che abbiamo suggeriscono di sì. Varie analisi hanno dimostrato una efficacia generale nel prevenire la diffusione del contagio. Recentemente sono state condotte molte revisioni sistematiche. MacIntyre ha pubblicato un'analisi che valuta l'uso delle mascherine per proteggere la comunità, gli operatori sanitari e come controllo alla fonte. Gli autori concludono che "l'uso di maschere in comunità da parte di persone sane potrebbe essere benefico, in particolare per COVID-19, dove la trasmissione potrebbe essere pre-sintomatica. Gli studi sulle mascherine come controllo alla fonte suggeriscono benefici importanti durante la pandemia da COVID-19" Altre due revisioni sistematiche, ancora non pubblicate, di Brainard si sono concluse in maniera contrastante. Da una parte infatti si rileva una funzionalità scarsa e poco rilevante, dall'altra invece una buona efficacia. Dati più incoraggianti derivano dagli studi clinici randomizzati (in sigla RCT). Da queste lavori viene fuori una buona efficacia nel prevenire la diffusione di malattie influenzali e alti coronavirus. Un recente esperimento su una specie di criceti ha visto come una mascherina posta fra due ambienti ha ridotto fino al 16.7% la capacità di trasmettersi di malattie di tipo respiratorio. Tuttavia i dati sull'efficacia sono spesso parziali e in contrato fra di loro. Un altro esperimento ha notato come la carica virale cali di circa 1000 volte negli individui che si infettano ricevano l'infezione da una persona che indossa la mascherina.
Questi risultati suggeriscono che gli interventi non farmaceutici sono importanti per mitigare la diffusione di malattie respiratorie e influenzali. Dovrebbero, inoltre, spingere gli analisti a fare una sintesi più ampia e discorsiva riguardo l'efficacia di questi strumenti di protezione piuttosto che cercare di dare risposte precise a domande biomediche strettamente definite.

Hanno effetti collaterali?

Una preoccupazione diffusa riguardo l'uso ampio e costante della mascherina riguarda possibili effetti collaterali. La prima e più diffusa in ambienti negazionisti è quella per cui causi difficoltà respiratorie ed un aumento della anidride carbonica respirata. Seppur la pressione di ossigeno e la concentrazione di anidride carbonica rispettivamente calino ed aumentino nell'ambiente tra maschera e viso (soprattutto se si tratta di filtrante facciale), nessun fenomeno di calo della pressione di ossigeno sanguigna si è registrata sia in individui sani che malati. Situazioni di sofferenza si sono registrate durante sforzi fisici o gravissimi problemi respiratori. Queste esperienze quindi suggeriscono una buona sicurezza nell'uso generalizzato.
In persone sensibili indossare una mascherina può portare a sviluppo di dermatiti da contatto e una accentuata sensibilizzazione cutanea. 
Effetti collaterali si sono visti in persone con attacchi di panico e claustrofobia, dove l'indossare la mascherina potrebbe aumentare attacchi di questo genere. È bene sottolineare che si trattano di osservazioni parziali e ancora da approfondire.
A livello di sicurezza di diffusione della pandemia inoltre ci possono essere degli effetti collaterali contrari. Indossare una maschera facciale può dare un falso senso di sicurezza e rendere le persone meno conformi ad altre misure di controllo delle infezioni. A causa di problemi con la comprensione del parlato, le persone possono avvicinarsi, anche involontariamente, le une alle altre aumentando così il rischio di infezione. Indossare maschere per il viso può causare l'appannamento degli occhiali e quindi causare qualsiasi cosa, dal disagio agli incidenti. Indossare una maschera facciale fa entrare l'aria espirata negli occhi. Questo genera una sensazione di disagio e un impulso a toccarsi gli occhi. Se non ben lavate questo può portare ad infezioni. Inoltre se indossata male, la mascherina non ha nessun reale effetto, ma il senso di sicurezza già citato può nei fatti far abbassare la guardia e contribuire alla diffusione del coronavirus.

Quindi, ricapitolando, la mascherina indossata correttamente quando necessario è un buono strumento di prevenzione, ma sicuramente non l'unico, per prevenire la diffusione di malattie respiratorie e quindi anche di questa pandemia. Non si rilevano particolari controindicazioni e nel caso di dubbi o reazioni è bene rivolgersi al proprio medico di base.

Tamponi, test rapidi e sierologico: cosa vogliono dire?

Grande confusione riguarda i test utili ad individuare il SARS-CoV-2. In questo periodo infatti si sono moltiplicati i test che possono essere usati per individuare una possibile infezione da questo coronavirus.

Tampone molecolare:

È il test di elezione per la ricerca del SARS-CoV-2. Viene fatto prelevando cellule dal canale nasofarinfeo dove il coronavirus può replicarsi attivamente. Si svolge attraverso una tecnica chiamata Real-Time PCR. La tecnica si basa sulla ricerca della sequenza genomica del virus. Attraverso due sonde, dette primers, si vanno ad amplificare sequenza specifiche di geni che identificano il virus. Amplificandole, attraverso un segnale fluorescente emesso dalla reazione, si può vedere anche la quantità di genoma presente. Questo tipo di test per capirci è il risultato che vediamo giornalmente nei bollettini del Ministero della Salute.

Tampone rapido o antigenico:

Ci sono svariate tipologie di test in commercio. Si basano su un prelievo di cellule dalla alte vie aeree o di saliva. Si cercano le proteine virali esterne del virus, dette appunto antigeni. La reazione si basa su degli anticorpi che, legandosi agli antigeni ove presenti nel campione, rilasciano un segnale colorimetrico o fluorescente. Il tampone rapido può restituire il risultato anche in un tempo di 15 minuti, al contrario di quello molecolare che necessita in media di 24-48 ore per la sua elaborazione. Sono stati introdotti in molte regioni e situazioni particolari (esempio aeroporti) per il monitoraggio veloce dei pazienti. Purtroppo però la velocità ha un costo in termini di sensibilità: se la carica virale è bassa, il test potrebbe risultare erroneamente negativo e non riuscire a rilevare l’infezione anche se presente.

Test anticorpale o sierologico:

Non ricerca direttamente il virus, eventuali anticorpi che il nostro corpo ha prodotto contro di esso. Funziona in maniera simile al test antigenico, ma questa volta sarà un antigene modificato presente nel test a liberare un segnale se nel campione, generalmente sangue, sono presenti anticorpi del paziente. A differenza degli altri test quindi non ci dice se il paziente ha virus dentro di sé, ma se il suo corpo ha sviluppato anticorpi. Ci restituisce quindi una fotografia del passato, di un eventuale contatto: il virus potrebbe essere ancora presente o essere stato sconfitto. Per questo dopo l'esisto positivo (cioè la presenza di anticorpi) generalmente si procede al tampone molecolare.

E i falsi positivi?

Gira parecchio in giro la storia che i tamponi diano molti falsi positivi. Su Facebook, ma non solo, si trovano parecchi post e filmati che dicono che i tamponi diano dal 80% al 95% di falsi positivi. Come sapete non amo fare il debunker, ma è bene precisare. Il tutto nasce da un documento mal interpretato dell'Istituto Superiore di Sanità. In questo documento una parte vuol spiegare il significato di sensibilità e specificità di un test. In quell'esempio si cita un documento, redatto a maggio, che riguarda però i tamponi rapidi. Il documento infatti si intitola proprio "RAPID DIAGNOSTIC TESTS FOR COVID-19". In questo testo si analizzano le capacità analitiche di tre tipi di test: ad alte, medie e basse performance in altrettante tre situazioni di diffusione della malattia. In questo testo si vede come un test a basse performance e con una diffusione della malattia molto bassa arrivi a dare il 90.8% di falsi positivi. All'aumentare della diffusione della malattia e della performance del test i valori riguardo l'affidabilità del test migliorano. Per questo motivo il governo ha esitato tanto ad approvare il loro uso. Inoltre all'esito positivo del test rapido, segue, per conferma l'esecuzione di un test molecolare.
Bisogna considerare che i test antigenici sono pensati come screening. In questi test un alto valore di falsi positivi non è negativo, il loro scopo è individuare i negativi, cosa che fanno molto bene. I positivi, vengono poi mandati al test di conferma. Lo screening veloce serve quindi ad alleggerire il carico dei laboratori del test molecolare: eliminando un certo numero di negativi i laboratori che elaborano i tamponi molecolari hanno un numero di test da fare e dall'altro canto un numero importante di persone negative saranno sicure di esserlo.
Il tampone molecolare, i cui risultati sappiamo giornalmente dal Ministero della Salute, invece danno risultati molto attendibili. Infatti, a seconda della tipologia di test e dai geni utilizzati per la valutazione, danno dallo 0.8% al 4% di falsi positivi. Molti laboratori e ASL consigliano comunque, soprattutto in casi sospetti con pochi sintomi o carica virale bassa, di eseguire un secondo tampone in modo da ridurre anche in questo caso la possibilità che si tratti di un errore.
Riguardo invece l'altra fake news che gira sulle capacità del test molecolare di identificare molti coronavirus, facendo sì che qualunque persona affetta da qualunque coronavirus umano risulti positiva vi lascio un bel articolo di facta.news che chiarisce la questione.

Asintomatici: sono dei diffusori?

Una delle questioni legate alle misure di prevenzione è il ruolo degli asintomatici. La capacità di diffondere il virus da parte di persone che manifestano pochi o nessun sintomo è una delle domande fondamentali a cui dare una risposta. In linea generale ci sono delle forti evidenze che persone pre-sintomatiche e asintomatiche possano trasmettere il virus. La diffusione del contagio dipende molto dall'ambiente  (chiuso o aperto, ricambio d'aria e tanti altri fattori), dal tempo di contatto e altri fattori. Un esempio riportato in letteratura mostra come, con una buona probabilità, un focolaio di nuovo coronavirus in una struttura assistenziale sia stato originato proprio da un caso asintomatico o pre-sintomatico (cioè che ha sviluppato sintomi successivi all'inizio della diffusione del virus). Il ruolo delle persone asintomatiche quindi non può essere classificato in un sistema binario.

Nella letteratura scientifica però si è raggiunto una sintesi che, seppur non uniforme, cerca di dare una risposta a questa questione. Gli asintomatici sembrano avere una capacità di dispersione virale inferiore rispetto alle persone sintomatiche. I vari studi mostrano come le persone che non presentano sintomi possano contagiare altre persone in maniera da 3 a 10 volte in meno rispetto ai contagiati che invece hanno sintomi come tosse, starnuti, febbre e sintomi respiratori. Probabilmente questa minor capacità potrebbe essere dovuta alla minor dispersione di goccioline di saliva, ma non ci sono dati certi. Le varie reviews tendono in ogni caso dare una buona importanza, soprattutto in ambiente familiare o epidemia diffusa, al ruolo degli asintomatici nello spargimento virale.

Uno studio ha mostrato come persone asintomatiche che svilupperanno successivamente sintomi possono contagiare di più rispetto a quelli che non svilupperanno mai sintomi. Ma una situazione di epidemia diffusa con un'alta percentuale di asintomatici e l'impossibilità di prevedere realmente se questi svilupperanno mai sintomi rende il controllo degli asintomatici giustificabile.

Quanto influisce la carica virale sui sintomi?

La risposta non è così semplice, la letteratura scientifica è infatti divisa.

Un articolo ha mostrato come i pazienti con sintomi gravi mostravano cariche virali da 10 a 60 volte maggiori rispetto ai pazienti asintomatici. Tuttavia un altro studio condotto da un team israeliano invece ha mostrato come le differenze nelle cariche virali tra pazienti con gravità diverse della malattia non fossero significative. Infine un altro studio ha mostrato risultati opposti: pazienti asintomatici hanno mostrato di avere quantità di virus maggiori rispetto a pazienti che hanno avuto bisogno di ospedalizzazione.
Questi sono solo alcuni esempi di risultati contrastanti che si possono trovare nella letteratura scientifica. Dati che confermano l'enorme incertezza nel campo. Incertezza che si riflette purtroppo anche nella comunicazione con persone che si lasciano entusiasmare o abbattere da un particolare dato, piuttosto che cercare di guardare e spiegare il quadro nel suo insieme.

I dati tuttavia sembrano concordi in una cosa: la carica virale sembra raggiungere il picco tra 1 giorno prima e 9 giorni dopo la comparsa dei sintomi. Dopo di che scende fino a scendere a livelli difficilmente rilevabili da 1 a 3 settimane dopo la scomparsa dei sintomi. Questa evoluzione temporale unita alla di fatto impossibilità di prevedere se un paziente svilupperà sintomi possono rendere giustizia al fatto che i risultati degli esperimenti diano risultati contrastanti fra di loro.

A fronte di questi contrasti, le varie autorità consigliano comunque alle persone di usare tutti quei sistemi (distanziamento, mascherine, lavaggio delle mani, aerazione degli ambienti) che possono ridurre la possibilità di contagio e diminuire anche la carica virale. Inoltre, pareri scientifici, consigliano la ricerca e il tracciamento dei possibili casi asintomatici come controllo della diffusione del SARS-CoV-2.

Quanto dura l'immunità?

Una domanda che gira e che torna spesso nelle discussioni riguardo i possibili vaccini è la durata degli anticorpi. Questa questione è uno dei punti al centro del dibattito scientifico fin dagli inizi della fase pandemica.

Va premesso che, essendo questa malattia studiata a livello mondiale da meno di un anno, dati certi su una possibile immunità oltre i 6-8 mesi non possono essere disponibili. Le varie ricerche sembrano però concordi sul dire che anche i livelli di anticorpi sembrano seguire una certa dinamica. Dalla comparsa dei sintomi alla comparsa di una quantità rilevabile di anticorpi possono passare da 0 a 9 giorni. Va infatti specificato che esistono due tipologie di anticorpi: gli IgM e gli IgG. I primi richiamano ad un'infezione in atto, mentre i secondi dovrebbero mostrare una protezione anche una volta guariti. Per questi dettagli e alle particolarità di questo coronavirus vi rimando ad un altro post del blog.

In linea generale la letteratura sembra concordare in una durata di buone quantità di anticorpi che va dai 3 ai 6 mesi dopo la guarigione e la scomparsa del genoma virale dei pazienti guariti. I casi che sviluppano malattie più gravi a seguito dello sviluppo del COVID-19 mostrano mediamente livelli di anticorpi più elevati rispetto ai pazienti lievi. Uno studio americano mostra come anche casi asintomatici sviluppino nella maggioranza dei casi anticorpi in media in 2 settimane dopo la rilevazione tramite tampone molecolare della presenza del virus nel corpo. Uno studio, ancora in fase di revisione, che ha coinvolto quasi 1200 persone della provincia di Trento mostra come dopo 4 mesi da una prima rivelazione la quantità di anticorpi scenda, ma non in modo uguale per tutte le tipologie di anticorpi testati. Calo che, secondo sempre un'altra ricerca in via di pubblicazione, varierebbe a seconda dell'età (maggiore nei pazienti anziani, minore in quelli giovani), delle condizioni cliniche e diminuisce negli operatori sanitari. Per un'altra piccola analisi in pre-print svolta su 185 pazienti l'immunità contro la proteina SPIKE di questo nuovo coronavirus supera in una buona percentuale di casi i 6 mesi, facendo ben sperare per una immunità a lungo termine. Risultati che sembrano essere confermati da un'altra ricerca, già pubblicata, sulla rivista Cell che mostra come i livelli di anticorpi calino diversamente in 5 mesi, ma in maniera diversa a seconda delle varie tipologie.

Insomma un quadro complesso che potrà essere chiarito solo col tempo e con ulteriori analisi. Analisi che forse potrebbero essere sostenute anche dalle ricerche sui vaccini: le ricerche per lo sviluppo e il monitoraggio dei livelli di anticorpi nel siero dei pazienti vaccinati saranno un supporto utile al diradarsi delle nebbie su questo tema.

Concludendo

Abbiamo visto che spesso la scienza non ci da risposte chiare. In questo periodo tutti vorremmo sentirci dire indicazioni precise, risposte chiare ed univoche, ma bisogna comprendere che la realtà è spesso più complicata. La scienza e il suo metodo procedono a tentativi per diradare piano piano il buio di conoscenze riguardo i fenomeni e spesso rileva più domande che risposte. Anche le sintesi e il consensus scientifico pongono dubbi, i paradigmi che li compongono sono vacillanti e per loro natura incerti. Spero comunque di avervi aiutato a chiarirvi alcune idee e, soprattutto, a non cadere in trappola di tante affermazioni fuorvianti che possono girare in rete.

Fonti
DOMANDA 1
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