Petrolio in mare! I danni di uno sversamento...

Purtroppo è successo un altro disastro: lo spezzamento della petroliera Mv Wakashio alle isole Mauritius ha riportato alla luce l'annoso problema degli sversamenti di petrolio in mare. Ma quali sono i danni? Che tecnologie abbiamo per contenerli?

I danni ambientali

Il caso Deepwater Horizon

Pur non essendo il peggior disastro ambientale della storia, il caso della piattaforma petrolifera Deepwater Horizon, è sicuramente il più studiato a livello scientifico. Il peggior disastro petrolifero della storia è infatti avvenuto durante la guerra del golfo, nel 1991, in maniera volontaria da parte degli iracheni che hanno disperso in mare circa 1400000 tonnellate di greggio.
Invece, la piattaforma Deepwater Horizon, nell'oceano atlantico, è un disastro accidentale, avvenuto nel 2010 a seguito dell'inabissamento della suddetta struttura. La fuoriuscita di petrolio dal fondo del mare è stimata più di 500000 tonnellate di petrolio.
Il 20 aprile del 2010 un incendio sulla piattaforma costituisce l'inizio del secondo disastro ambientale marino della storia. Durante le fasi di costruzione un'esplosione colpisce la piattaforma che prende fuoco, a causa di vari fattori, e complice anche una sottovalutazione del problema da parte della società costruttrice, l'incendio non può essere controllato ed inizia una pesante fuoriuscita di materiale dal pozzo ormai perforato. Dopo due giorni la piattaforma si inclina, inabissandosi, a quel punto saltano anche le ultime valvole di sicurezza che ancora tenevano sotto controllo la perdita. A quel punto il disastro è inevitabile: spinte dalla pressione della crosta terrestre a grande velocità iniziano ad uscire tonnellate e tonnellate di petrolio che, vista la minor densità dell'acqua, iniziano a ricoprire la superficie del mare espandendosi per più di 176000 km quadrati.
Complici il territorio statunitense e una comunità scientifica "moderna", questo terribile disastro è stato usato per cercare di capire gli effetti ambientali di uno sversamento di petrolio di grande portata; diventando a tutti gli effetti il caso studio più indagato della storia in questo settore.

Gli effetti immediati

Il petrolio è più leggero dell'acqua di mare e tende quindi a galleggiare e diffondersi su ampie superfici trasportato da onde e correnti. Tuttavia è un materiale scuro, organico, contenente molte impurità e inquinanti. Gli effetti immediati di questa sostanza sull'ambiente riguardano gli organismi che vivono nei primi strati di acqua. Infatti, il greggio è in grado di oscurare la luce del sole e impedire quindi tutti quei processi di fotosintesi necessari al sostentamento della vita acquatica. In più, negli oceani, la vita si concentra nei primi strati d'acqua e la composizione organica del petrolio è in grado di legarsi ai corpi di pesci, rettili, mammiferi, uccelli e organismi vari che la popolano. Le famose immagini di animali morti o morenti intrisi di petrolio derivano proprio da questo. Inoltre, il mix di sostanze che compongono il greggio può essere trasportato a riva dove si può legare a tutte quelle molecole che compongono la costa, danneggiandola ulteriormente. Una serie di danni ambientali, quelli acuti, che può essere contenuta solo con il contenimento fisico della cosiddetta marea nera e con la raccolta del petrolio dalla superficie del mare e della costa.

Gli effetti a lungo termine

Poco si sa sugli effetti a lungo termine dei grandi sversamenti petroliferi nel mare. Dagli studi nell'area del disastro della Deepwater Horizon si stanno iniziando a vedere i danni eco-sistemici a lungo termine.
Il petrolio è difficilmente biodegradabile e rimane nell'ambiente molto a lungo. I residui di greggio possono rimanere nel mare e lentamente affondare. Ma come fa il petrolio ad affondare se è meno denso dell'acqua? Grazie a una serie di particelle presenti nell'acqua. Queste particelle idrofobiche riescono a legarsi alle gocce di petrolio disperse nell'oceano appesantendole. In genere si possono trattare di frammenti organici di pelle, ma anche grassi, glicolipidi, fosfolipidi e altre molecole e/o inquinanti. Normalmente queste particelle idrofobiche, organiche o non, stanno in dispersione, ma in presenza di olio o simili riescono ad aggregarsi. Poi, semmai aiutate, dalle temperature fredde del mare, queste strutture di oli e particelle, chiamate micelle, si addensano e precipitano sul fondo. Quindi, oltre ai danni acuti in superficie, si aggiungono danni a lungo termine dovuti al deposito sul fondale. Lì riescono ad entrare nella catena trofica, cioè quella serie di processi per cui le molecole riescono ad accumularsi negli organismi viventi.
Questo fatto porta inevitabilmente a delle conseguenze gravi, ancora non completamente chiariti. Dal disastro della Deepwater Horizon sappiamo alcune cose. Lesioni e tassi di mortalità sono stati documentati per delfini, capodogli, lamantini, tartarughe marine, mangrovie, uccelli marini, ostriche, pesci e alghe. I mammiferi marini, come balene e delfini, hanno mostrato maggiori tassi di spiaggiamento e malattie riproduttive. I tursiopi, una particolare classe di delfini, hanno tassi di malattia e mortalità superiori del 8%. Inoltre si è visto che la fertilità era diminuita del 63% rispetto alle popolazioni non colpite dal disastro. Nel complesso, la fauna selvatica ha sperimentato una mortalità acuta, nonché danni, anche non mortali, a lungo termine molto gravi. I tassi di morte e lesioni sono considerati una sottostima e si ritiene che siano 50 volte maggiori a quelli effettivamente registrati.
La vegetazione costiera è stata danneggiata e i tassi di erosione costieri sono aumentati in seguito agli impatti della fuoriuscita di petrolio. Entro 2 anni e mezzo dalla fuoriuscita, circa 4,1 chilometri quadrati di costa sono andati persi. È probabile che il continuo stress ecologico eserciti una pressione ecologica enorme sullo sviluppo della vegetazione costiera per molti anni a venire.

I danni sull'uomo

Ma anche sull'uomo gli effetti non mancano.
L'impatto economico è evidente: la produzione e la pesca di specie ittiche è rilevante. Ostriche, gamberi, aragoste e vari pesci, anche allevati, hanno avuto cali di produzione importanti, anche maggiori del 60%. Oltre all'industria della pesca anche il turismo ha avuto danni rilevanti. Nei mesi immediatamente successivi al disastro, le aree della California colpite dalla marea nera hanno avuto un danno legato all'indotto turistico stimato a 150 milioni di dollari ogni mese. Lo stato, nei 5 mesi successivi, si stima abbia perso, nelle 1100 miglia di costa colpite oltre 105 milioni di entrate fiscali. Danni economici enormi e difficilmente quantificabili, durati anche poco grazie ad una massiccia campagna pubblicitaria, sostenuta anche dall'allora presidente Obama che nei due anni successivi alla ripulitura della zona hanno riportato i turisti in quelle aree.
Ma anche la stessa salute umana ha avuto grosse conseguenze dal disastro. I livelli di esposizione ai metalli pesanti sono aumentati notevolmente nelle aree colpite, con ad esempio livelli di piombo nei bambini superiori di 1,5 volte alla media rispetto alle aree non colpite. Inoltre lo sversamento di IPA (Idrocarburi Policiclici Aromatici) ha sicuramente portato all'accumulo anche nell'uomo di queste sostanze dannose. Queste sostanze sono infatti collegate allo sviluppo di molti tumori e a danni ormonali, soprattutto nell'età dello sviluppo.
Ma anche le sostanze per il controllo del petrolio suscitano preoccupazioni. I disperdenti chimici del petrolio utilizzati erano COREXIT 9500A e COREXIT 9527A che rappresentano miscele di tensioattivi e solventi contenenti glicole propilenico, diottil solfosuccinato di sodio (DSS), distillati di petrolio leggero idrotrattati e alcoli etossilati. È stato riscontrato che l'inalazione acuta di queste sostanze porti a danni, a breve e medio termine, al sistema immunitario. Altri effetti, di durata di pochi mesi, hanno riguardato lo sviluppo di infarti, la capacità polmonare e lievi problemi neuronali nelle aree colpite.
Ad oggi sono in corso vari studi di monitoraggio a lungo termine delle popolazioni venute a contatto con il greggio rilasciato.

Le strategie per il contenimento

Le soluzioni storiche per il contenimento del petrolio sono le barriere assorbenti. Queste barriere galleggianti hanno una duplice funzione: impedire che la macchia di petrolio si allarghi diminuendo così i danni e assorbire il petrolio stesso. Devono essere fatte quindi di materiali adatti ed essere sostituite periodicamente per evitarne l'affondamento. Il petrolio, circoscritto in queste aree, può quindi essere aspirato da navi apposite. Questo tipo di soluzione però è sicuramente imperfetta. Le condizioni del mare possono rendere impossibile posizionare le barriere, le aree colpite dalla fuoriuscita di greggio possono essere lontane dalla costa o in stati poveri che non possiedono materiale a sufficienza per creare le barriere. Ha infatti fatto notizia che gli abitanti delle Mauritius colpite dall'ultimo disastro raccogliessero i propri capelli tagliati per la creazione di barriere improvvisate, in quanto lo stato non possedeva barriere a sufficienza e, quindi, hanno dovuto "improvvisare". Alcune di queste barriere possono essere lavate e riutilizzate fino a 5-7 volte. La ricerca in questo settore è molto affascinante perché riguarda la oceanografia, l'ingegneria dei materiali, la navigazione e molti altri settori.

I batteri "mangia-petrolio"

Settore in grande espansione in questi anni riguarda la biotecnologia. Si stanno infatti cercando di sviluppare batteri e microrganismi in grado di digerire il petrolio e trasformarlo in prodotti meno inquinanti. Questo tipo di soluzione, è da chiarirsi, non è utilizzabile per i danni acuti, ma va intesa come sistema per arginare i danni a lungo termine e l'inquinamento cronico da idrocarburi nel mare. Infatti i processi metabolici richiedono tempo. Nel tempo vari ceppi batterici sono stati sviluppati e studiati per varie situazioni e tipologie ambientali. Alcune popolazioni microbiche, già presenti nell'ambiente, come Alcanivorax e Marinobacter, note per degradare idrocarburi aumentano anche dell'80% nelle aree colpite dai disastri petroliferi.
La ricerca in questo settore riguarda sia la ricerca di nuove specie già presenti in natura, sia lo sviluppo biotecnologico di laboratorio. Infatti la genetica è molto d'aiuto: isolare e scoprire quali geni siano utili nella degradazione del petrolio è fondamentale nell'analisi. Modificare geneticamente batteri e renderli più efficienti è un passo fondamentale per questo settore. Quasi sicuramente è mix di geni a rendere i batteri in grado di digerire il petrolio. Trovare la combinazione giusta per rendere il processo più efficiente e veloce è lo scopo dei ricercatori.
Rimangono però delle domande fondamentali a cui rispondere. Che fine fanno i batteri una volta che il petrolio da digerire è finito? I composti di degradazione come entrano nella catena trofica? Che ruolo assumono i batteri nell'ambiente oltre a quello metabolico? Con quali altre comunità microbiche possono entrare in competizione?
Domande necessarie per far sì che questa soluzione non generi problemi ulteriori a quelli del danno petrolifero.

Concludendo

Se da un lato stiamo cercando di sviluppare soluzioni sempre più efficienti per ridurre i danni dai danni dovuto al petrolio in mare, è chiaro che una economia legata ai combustibili fossili sia sempre una fonte di rischio per questo tipo di problemi.
Il modo più sicuro per evitare i danni sarebbe quello di staccarsi dal petrolio, mettendo sempre meno oleodotti e petroliere in giro. Una economia Green con energie rinnovabili, bioplastiche e meno legata ai combustibili fossili per il trasporto è la spinta migliore alla prevenzione di certi disastri.
Però questi cambiamenti sono sicuramente lenti e coinvolgono vari portatori d'interesse, la ricerca quindi di soluzioni all'inquinamento (non di certo dio breve durata ma che durerà ancora per decenni) dovuto agli idrocarburi dispersi deve ancora procedere in uno sforzo globale teso alla salvaguardia di tutto il pianeta.

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